giovedì 21 aprile 2016

Criolo, invoca il tuo Buddha



Arriva dal basso come una delle promesse meglio mantenute della nuova scena brasiliana. È esploso - proprio quando stava per smettere - con le sue cronache urbane cariche di rivendicazioni sociali e ambientaliste. Canzoni che odiano l’egoismo e ricordano come «tutto ciò che il denaro non può comprare» sia «un attacco al potere». Per questo, racconta, «tutto è importante, dal sorriso di un bambino ai racconti degli anziani, alla musica».

«Invoca il tuo Buddha», Convoque seu Buda, è il titolo del terzo album di Kleber Cavalcante Gomes, che con il nome di Criolo e alle soglie dei 40 anni è una delle promesse meglio mantenute dell’inesauribile fucina musicale brasiliana. Le tre date italiane del suo tour hanno spezzato quest’estate la solita polverosa offerta dei palchi nostrani, dandoci l’occasione di parlare con lui del suo rap nel quale tutto si fonde, dal samba all’afrobeat, dal funky alla mpb (la musica popular brasileira, quella di Veloso e Gil, per intenderci), al reggae, all’ethiojazz, alla black Rio.
Le sue sono cronache urbane che parlano dello sciopero dei trasporti che impedisce al panettiere di andare a lavorare – «Io che odio tutto il mondo non vedo un’offesa nella manifestazione ma la possibilità di avere il pane caldo per ogni cittadino» (Fermento pra massa) -, di case di cartone abitate da “fratelli” che si fanno di crack (Casa de papelão), di feste smodate dell’upper class (Cartão de visita) guardate dal ragazzino che chiede soldi sotto un lampione «che si umilia e detesta».
Con lui sul palco, e negli ultimi due dischi (Convoque seu Buda, 2014 e l’acclamatissimo Nò na orelha, 2011) la crema della nuova scena paulista – Marcelo Cabral, Sergito Machado, Daniel Ganjaman, Guilherme Held nell’ultimo tour, in studio Thiago França, Kiko Dinucci, Douglas Germano – che suona tutto e instancabilmente definisce la nuova grammatica della musica di un gigante che non vuole più dormire.

Cominciamo dall’inizio, eri ancora un bambino quando hai iniziato.
Fin da piccolo provavo a imitare mia madre che canta: la musica che passavano le radio, i temi delle novelas degli anni 70 e 80, le pubblicità televisive, che allora erano molto curate, con temi ben fatti e jingles elaborati, i vinili che compravano i miei genitori. Quando avevo undici anni, un mio amico compose dei versi, quattro strofe, sulla sua preoccupazione di non passare l’anno. L’ho trovato magico, non avevo ancora percepito che si potessero combinare le parole. Cominciai a scrivere quello che succedeva durante il giorno, di amicizia, famiglia, finché un giorno ascoltai un pezzo molto lungo, in cui tutto rimava. Era un rap, ma io non lo sapevo. Sembrava che quella persona parlasse della mia vita, del mio quartiere, cominciai a capire le preoccupazioni dei miei genitori, di cosa parlassero in casa. Volli farlo anch’io. Ho passato due anni scrivendo, poi chiesi di cantare a una festa che non era una festa. Ti racconto il grado “quasi zero”: Il presidente dell’associazione degli abitanti di Jardim Manacàs – il quartiere dove vivevo, a Grajaù (sobborgo della zona Sud di São Paulo, ndr) -, che aveva un impianto con cui organizzava balli di strada e nelle scuole, volle montare un ballo per la consegna delle donazioni di cibo e vestiti dell’ufficio di assistenza sociale, «perché non sia triste, e i bambini che vengono a ritirare i pacchi si sentano in una festa», disse. Gli chiesi di cantare due pezzi, fu la prima volta che salii su un palco. Ci misi un mese per registrare la parte strumentale di quei rap, con una doppia piastra, quattro secondi alla volta. E presi il mio pacco: scarpe da ginnastica, una giacca per il freddo e un sacco per le cipolle pieno di cappelletti. Eravamo felici, perché avevamo cappelletti per un mese, e la fame era tanta. Avevo dodici anni, e non smisi più di cantare.

Il rap, allora, e le battaglie di freestyle della Rinha dos MCs, di cui tu sei fondatore.
Sono cresciuto a Grajaù, in un ambiente di ragazzi che facevano un rap molto politicizzato, che toccava temi sociali, razziali, politici, riguardanti non solo São Paulo , ma tutto il Brasile. All’inizio erano forti i gruppi di breakdance: ce n’erano almeno 10 per ogni MC. Ci si esprimeva di più con la danza: lo stile, i vestiti, il corpo comunicavano con grande forza. Per quanto riguarda la Rinha dos MCs, era il 2006, avevo 31 anni, ero disoccupato, con quasi 20 anni di hip hop alle spalle e un grande desiderio di vedere i giovani incontrarsi. Io e DJ DanDan – un grande attivista culturale e da 18 anni compagno di palco – immaginammo un incontro dove si suonasse solo vinile, che si stava abbandonando. Una festa in cui si suonassero rap che venivano dimenticati, che offrisse alle persone che non lo conoscevano un suono che noi conoscevamo e amavamo. È nata così la Rinha dos MCs, per promuovere la cultura del vinile e dare spazio ai giovani per il loro freestyle. Il prossimo anno organizzeremo un grande incontro per il decennale.

Nuove e vecchie generazioni: hai inciso un disco con Emicida, uno dei più brillanti fra i giovani emergenti, e nei tuoi testi ricordi Sabotage, personaggio iconico del rap paulista, ucciso nel 2003 a neanche 30 anni.
Vidi Emicida alla Rinha dos MCs nella Casa do hip hop di Diadema, ci piacque molto e lo invitammo a venire nel nostro quartiere. Con Dj DanDan abbiamo creato l’ambiente adatto perché questi giovani possano mostrare il loro talento. Il mio ruolo è guardare, applaudire e promuovere giovani che hanno molto da insegnarmi. Fra i gruppi importanti per me, dei vecchi, posso ricordare i Facção central, usano testi molto forti e diretti, dicono la verità senza fare sconti. Uno degli scrittori e MC dei Facção central, Eduardo, ha lasciato il gruppo e ora sta facendo un lavoro solista, ha pubblicato alcuni libri e da poco un disco sulla stessa linea. I Racionais MC’s sono un riferimento per il 90% dei brasiliani, che piacciano o meno, raccontano São Paulo com’è. Hanno forza, non sono più tanto giovani, piuttosto dei giovani signori con delle idee, che conservano credibilità, rispetto e la visibilità di una lotta decennale. Potrei fare molti altri nomi, ma questi rappresentano scuole e cammini differenti di scrittura e di un’estetica sonora ricchissima. Sabotage era un illuminato, sintetizzava tutto nella sua persona: piace a chi fa rap gospel, gangsta, romantico, a tutti. Tutti vedevano in lui malizia e purezza. Questa è São Paulo, ma il Brasile è grande.

A un certo punto volevi smettere di fare musica, cosa è successo?
Quando ho compiuto 20 anni di carriera, ho detto a DanDan: «È dal 1988 che cantiamo e lottiamo, credo che sia il momento di stare insieme in un’altra maniera». Pensavo che se fosse dovuto succedere qualcosa, sarebbe già avvenuto, che il mio tempo fosse passato, e stessi occupando lo spazio dei più giovani. Allora un mio amico, Ricardo, il maggior attivista che io conosca per i temi ecologici e ambientali , e fondatore della Matilha Cultural, un grande spazio di cultura e espressioni artistiche, un’oasi nel deserto, mi disse «vuoi smettere di cantare? Va bene, ti presento Marcelo Cabral, che può aiutarti a registrare dei pezzi che restino per la tua famiglia, quelli che canti sempre per me, questi ritmi che nessuno sa cosa siano». Marcelo chiamò Daniel Ganjaman, e insieme cominciarono ad aiutarmi nella registrazione. A metà mi fermarono e mi dissero: «Vorremmo che tu vedessi la bellezza di quello che stiamo facendo, che te ne accorgessi». Nò na orelha è nato così.

«Nò na orelha» suona più “intimo” di «Convoque seu Buda», che pare più rivolto al sociale, al collettivo.
È intimo perché viene dal mio cuore, e dalla mia testa, perché ci è costato tanto sudore… Sono momenti diversi dello stesso cuore e della stessa testa, con un’identica preoccupazione. Nò na orelha viene dalla necessità che qualcosa non si perda. Dopo mi sono chiesto se registrare ancora. Io non ho bisogno di provare niente a nessuno, la musica conversa con il pianeta, non ha bisogno di una faccia, ma di un’intenzione. Dello sguardo su un Brasile che lotta per il cambiamento e sui governanti che non vogliono che accada. Se parlo con te di problemi sociali del Brasile, per certi versi può sembrare che stiamo parlando di anni ’70 e ’80: la sofferenza è la stessa, la mancanza di strutture, di posti dove tutte le creazioni, con dignità, si possano sviluppare. Io plaudo a chi ha lottato, e lotta, e ha conquistato alcuni cambiamenti, ma è ancora molto poco. Ogni volta le persone si organizzano, si riuniscono e lottano in maniera seria, ma l’influenza sul governo è davvero scarsa.

 
Quanto pensi sia importante la musica per questo?
La musica ispira, può essere il telaio per la tua tela. È uno strumento naturale, non c’è bisogno di preoccuparsene, lo è dal momento in cui il tuo sguardo decide che lo sia. Uno strumentale composto da qualcuno per il figlio, può colpire un’intera generazione aiutandola a scendere in strada a combattere i mostri che dobbiamo affrontare. Posso fare una canzone per sostenere una causa sociale e non avere quest’effetto. Per questo è importante contestualizzare, trasmettere alle persone un po’ di quello che vivi, in cui credi.

Hai scritto una canzone a sostegno della lotta del Cais Estelita, l’occupazione di vecchi locali portuali di Recife che si vogliono abbattere per costruire un enorme complesso residenziale fuori dal piano regolatore, la «nova Recife».
C’è un’Estelita in ogni posto del mondo: stiamo perdendo la nostra bellezza naturale, uccidendo le sorgenti, abbattendo alberi, sterminando specie animali per costruire case per gente ricca che già ne ha. Non parliamo di lotta per la sopravvivenza, della necessità di costruire una capanna altrimenti la mia famiglia muore. Stiamo parlando di quello che architetta la società moderna, egoismo e vanità. Tutto ciò che il denaro non può comprare, è un attacco al potere. Per questo è importante tutto, dal sorriso di un bambino ai racconti degli anziani, alla musica.

Chi è questo Buddha che invochi?
È la tua parte di equilibrio, di amore, è la speranza. Perché se abbiamo la speranza, lottiamo.

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Foto di Giulia Razzauti

Intervista per Il Manifesto del 1 settembre 2015

Un Brasile senza nostalgie Storie. Lucas Santtana, tra le firme e le voci più importanti della nuova scena baiana parla della sua musica


È tornato in Italia Lucas Santtana, dopo una apparizione a Milano e Firenze lo scorso novembre, per due date – una romana il 15 luglio e una recente, il 4 agosto, al Dromos festival di Oristano. Ad attirare l’attenzione europea e guadagnargli un contratto discografico inglese l’album del 2009, Sem nostalgia, voce e chitarra che fanno una banda, e parecchi musicisti a usare lo strumento unico in forme molteplici. Una carriera che inizia a 23 anni partecipando all’incisione di Tropicalia 2 di Caetano Veloso e Gilberto Gil, ma che subito si dirige verso territori più inusuali, esplorando stili e affinando le armi, il tiro, il gusto, la traiettoria. Legato a Bahia, prende parte ai lavori dei Baiana System, che insieme al suono della chitarra baiana, l’elettrica a 4 o 5 corde usata nei ruggenti Carnevale degli anni 60 e 70, vogliono riprendersi strade e cuore di Salvador, la Roma negra. Figura centrale e interprete versatile del suono che veloce si trasforma e attraversa il nuovo Brasile, sarà in trio con Bruno Buarque e Caetano Malta, samplers, mpc, percussioni, basso, chitarre.

«O Deus que devasta mas tambem» cura (Il dio che devasta ma anche cura) è il titolo del tuo disco e dello show che porti in Europa. Chi è questo dio?
Il titolo nasce da uno scambio di tweet, mi scrissero «il dio devasta» e io risposi «ma cura anche». È una metafora degli dei della natura, come il tuono, la tormenta, che si manifestano come dominatori che nulla riesce a fermare, insieme a quelli che abitano a volte il nostro corpo come l’amore, l’odio, la rabbia, il dolore, la sofferenza.

Sei al quinto disco, hai cambiato moltissimo, spaziando fra stili molto differenti, dal funky all’mpb, all’elettronica, al dub: cosa resta e cosa cambia oggi nella tua musica?
Nel mio lavoro ho sempre cercato l’autorialità, un suono personale. Così nel primo disco ho trovato alcune cose, nel secondo ho scoperto che non ne conoscevo molte altre, e in questo tipo di lavoro il tempo è un grande alleato, perché tu continui accumulando esperienze, continui a imparare e a ricercare, non sapendo mai quello che sarà. Trovare nel quinto disco i lavori passati insieme a cose nuove è naturale, c’è l’apprendistato che ho fatto con me stesso, nella mia ricerca, insieme al gusto di avventurarmi in luoghi sconosciuti. I dischi ogni volta sono diversi, ma portano un precedente che forma uno stile, una firma, un marchio. Credo che in tutti si ritrovi la mia maniera di pensare musica, per “strati “ di suono, per muri di suono. Compongo canzoni normali, con melodia, ritmo, armonia, ma il mio grande piacere, quando registro, è costruire architetture sonore intorno alla musica, un elemento che rimane sempre.

Collabori con moltissimi musicisti, Céu, Curumin, la canzone «O deus que devasta mas tambem cura» l’avevi già incisa nel disco di Amabis («Memorias luso-africanas»): qual è l’importanza della collaborazione fra musicisti?
È molto importante, credo sia la caratteristica di questa mia generazione, tutti partecipano ai dischi di tutti, c’è una collaborazione enorme. Nessuno conosce tutto, e quando collabori al disco di una persona che ammiri, di un amico, porti un po’ della tua maniera di pensare la musica in quel lavoro e vedi se funziona. Quando ho chiamato Céu per il mio album lei è venuta a cantare portando tutta una trama di sue esperienze, il suo stile, che arricchisce il mio lavoro.

Qualche anno fa Chico Cesar disse che i tropicalisti non hanno portato alcun vantaggio alla generazione di musicisti che sono venuti dopo, perché hanno gettato una sorta di ombra sul lavoro di questi: agli occhi degli europei e degli americani sembrava non esistesse altro. Qual è la tua relazione con i «padri» della musica brasiliana, quelli degli anni 60 e 70, tropicalisti e altri?
Ho ascoltato molto i dischi di Caetano, di Gil quando ero adolescente, sono stati importanti nella mia formazione culturale, per la maniera di pensare il Brasile, quello che il Brasile rappresentava nel mondo. Credo che tutto quello che fu fatto dopo porti l’influenza di quel momento, ma allo stesso tempo il tropicalismo per me è una cosa datata, una cosa degli anni 60, che dipinse di un particolare significato socio-politico quell’epoca. Un movimento importante perché tutto ciò di cui tratta c’è da sempre: l’assorbimento di altre culture, l’antropofagia, sono elementi che appartengono alla cultura brasiliana, ancor prima del modernismo o di Chiquinha Gonzaga. La cultura brasiliana è dalla nascita una cultura dell’amalgama, del crossover, della mescolanza. Il tropicalismo è stato così importante perché in un momento in cui il Brasile era in una fase molto conservatrice, funzionò come un riflettore che illuminava una cosa già esistente. L’eredità che ha lasciato consiste proprio in questa maniera di vedere la musica, la cultura.

Tu sei baiano, e collabori con formazioni come i Baiana System. La scena a Bahia sembra un po’ ferma dopo il grande exploit commerciale dell’axè, tu come vedi la situazione, cosa si muove?
Penso che ci sia molto lavoro a Salvador, con i Baiana System, l’Orquestra Rumpilezz di Letieres Leite, i Retrofoguetes, Gilberto Monte che è un produttore di là. L’axè è stato un fenomeno molto forte, non ha permesso che sorgessero altre cose, quindi questa generazione, dei Baiana System e gli altri, è molto importante perché ha creato una nuova forma musicale, parallela all’axè, che ogni volta accresce il suo pubblico e che riesce a prendere quella deformazione locale, ritmica e portarla in un’altra direzione, un’evoluzione di quanto stava succedendo in città.

Il Brasile è cambiato molto negli ultimi anni: le presidenze del PT (Partido dos Trabalhadores), la grande crescita economica, Gilberto Gil ministro della cultura, ma per i musicisti è cambiato qualcosa, anche riguardo agli annosi problemi con la Ecad (la Siae brasiliana) e i diritti d’autore?
Nel ministero di Gil e poi in quello di Juca Ferreira ci sono stati molti progressi in questo campo, nel ripensare le questioni dei diritti d’autore, della cultura digitale, della condivisione dei contenuti musicali. Erano temi che non esistevano in ambito istituzionale fino ad allora, ma con la fine del ministero di Ferreira è tornato tutto indietro. Adesso con Marta Suplicy (PT) si prova a riaprire le discussioni aperte da Juca Ferreira. C’è molto fermento nei musicisti attorno a questi temi, ma è ancora una situazione da definire.


Cosa pensi del download gratuito? Romulo Froes disse che permette una grande libertà di espressione artistica, ovvero una grande opportunità, tu stesso lavori come indipendente, qual è la tua opinione?
Io non ne faccio una bandiera, come se esistesse una sola strada. In concreto, mi sono accorto che se la divulgazione del mio lavoro dipendesse solo dalla vendita dei dischi, si farebbe molto poco, il paese è molto grande e le persone non comprano più cd. È molto difficile in una terra di queste dimensioni arrivare ovunque, attraverso il web invece è possibile, per questo io rendo disponibili i miei lavori. Costa molto registrare gli album, renderli scaricabili gratis non mi rende felice, ma in termini commerciali è preferibile che il mio lavoro si diffonda il più possibile, così faccio concerti. Certo, se li potessi vendere potrei pagare meglio chi ci lavora, c’è tanto lavoro dietro ogni produzione, e sono impegnate molte persone. La mia etichetta in Europa, la londinese Mais Um Discos, è totalmente contraria, perché sta investendo molto, dunque qui non i miei non possono essere scaricati gratuitamente. Non faccio del free download una bandiera, perché penso che per ognuno sia più o meno importante, o lo sia in un particolare momento, ma sicuramente non è un dogma che tutti devono o non devono seguire.

Suonare in Europa: com’è il pubblico, l’attenzione è differente?
Molto, ma ci sono differenze anche fra gli europei. Quanto più si è nel sud più ci si sente più vicini al pubblico brasiliano; a Nord il pubblico diventa caloroso giusto alla fine del concerto, ma d’altro canto quando per esempio suoni in Svezia c’è un silenzio che personalmente mi emoziona molto, perché è una cosa molto rara in Brasile, tu che canti e nessuno che canta o parla o fa il tifo.. mi piace molto il silenzio perché soprattutto nelle canzoni lente, è molto emozionante sentire la voce che vi si spande.

«Sem nostalgia», un disco audace e molto ben riuscito, un disco di voce e chitarra che va oltre il voz-e-violao di Joao Gilberto.
Sognavo di fare un disco voce e chitarra, un formato classico della musica brasiliana, da molti anni, ma non volevo fare un disco come Joao Gilberto, Caetano, Gil perché l’avevano già fatto loro molto bene, non avevo niente da poter aggiungere. Ci ho pensato per anni finché poco per volta non ho trovato soluzioni per fare musiche che, pur essendo solo voce e chitarra suonassero diverse, e man mano che le trovavo prendevo coraggio per farlo davvero, questo Sem nostalgia. L’idea era proprio questa, che la gente non sapesse che era una registrazione solo con voce e chitarra, ma che pensasse ci fosse un gruppo, batteria, chitarra, basso. C’era la volontà di decostruire una tradizione che per 50 anni in Brasile si era conservata immutata, tutti registravano dischi così allo stesso modo. È stata una maniera di omaggiare una tradizione e allo stesso tempo rompere con essa.

Che musica ascolti, cosa suggeriresti?
Ascolto tutti i tipi di musica, vecchia, nuova, che non si trova in disco, che scarico da internet. Sono tornato ad ascoltare i quartetti d’archi di Ravel e Debussy, due capolavori, bellissimi, molto moderni. C’è una formazione incredibile di soli fiati e batteria di Chicago che si chiama Hypnotic brass ensemble, che per anni ha suonato per strada, in metro finché non è stata scoperta. C’è l’orchestra Rumpilezz del maestro Letieres Leite di Salvador, che prende la liturgia ritmica dei tamburi del candomblè e vi colloca 16 fiati, un lavoro di altissimo livello …se avessi il computer qui ti farei vedere…

Cristiano Bastos, giornalista musicale, scrittore, critico, cineasta, gaucho e appassionato


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Cristiano Bastos risponde da Brasilia, capitale federale, alle nostre domande e cura per noi una playlist parecchio underground.

Sei originario di Porto Alegre, nel Sud, dove sei cresciuto. Qual è stata la tua formazione musicale?
La mia formazione è stata sempre legata al giornalismo musicale: sono da sempre appassionato dei reportage e, in questo campo, ho da sempre la curiosità di indagare la “storicità perduta” della musica brasiliana, in particolare, assai ricca di innumerevoli depositi, dischi rari, e una grande quantità di artisti ancora molto “sotterranei”. A Porto Alegre ho scritto un libro “Gauleses irredutiveis”, una ricerca giornalistica realizzata con 167 fra musicisti, giornalisti, produttori e promotori del rock di Rio Grande do Sul. Pubblicato nel 2001, è ancora oggi l’unico testo a mettere a fuoco 40 anni di storia di musica di Rio Grande do Sul, con più di 1000 interventi esclusivi e 84 immagini rivelatrici. Gauleses è arrivato curiosamente a ispirare un libro del collettivo italiano Wu Ming, “New Thing” . Fra le interviste di artisti e musicisti che costruirono la scena rock di Rio Grande do Sul, c’è Flavio Basso, meglio conosciuto come Jupiter Maçà, o Apple.
Di Jupiter Maçà abbiamo ascoltato in apetura una rarità, “Aquarians da Rua 20”, brano che rimase fuori dall’album “Setima Efervescencia”, un disco che ha rivoluzionato la musica psichedelica del Brasile, e che ancora oggi, 20 anni dopo la sua uscita, esercita una grande influenza. A seguire, ascoltiamo “Lagrima”  da “Aline”, lavoro del gaucho Cristiano Varisco, appena uscito con la produzione di Thomas Dreher, lo stesso produttore di “Setima Efervescencia”. Con l’accompagnamento del gruppo vocale di “Musica Cosmica Sul-Americana”, accordi dissonanti e solo di chitarra alla fine del brano, è parte di uno dei migliori dischi del 2013.

“Aquarianas da Rua 20” (Júpiter) / “Lágrima” (Cristiano Varisco)

Che succede oggi là nel Sud?
Il Sud è sempre stato molto attivo in campo musicale, sia per la cosiddetta musica “nativista”, la musica tradizionale dello Stato, che per il rock, che è innegabilmente la musica per eccellenza del giovane gaucho. E’ stato così dagli anni 50, quando i gauchos ricevevano dall’Argentina, che deteneva l’industria discografica più avanzata del cono Sul, le novità degli anni 50 e 60: ossia, eravamo i primi a ascoltare le cose nuove, i Beatles, i Kinks, eccetera. Fra tutti gli stati brasiliani, il Rio Grande do Sul è probabilmente il più rockettaro, la produzione non si ferma mai, dagli anni 80. Lì si dice che se si colpisce un albero, cadono 15 gruppi. Oggi, io indicherei i Medialunas, il chitarrista Erik (ha soli 16 anni ed è il figlio di Fred Endrres della formazione Comunidade Nin-Jitsu), i Quarto Sensorial, gli Urso, i Marmota Jazz, e chiaramante Gustavo Telles (ex Pata de Elefante, formazione di rock strumentale), che ha appena pubblicato il suo secondo album solista, “Eu perdi o medo de errar”.
In questo gruppo di musicisti spicca Marcelo Birck, uno dei fondatori dei Graforréia Xilarmonica, di cui ascoltiamo “Eletrolas”, composta, a suo dire, partendo da un asse centrale basato su un tema surf. Altro brano che ascolteremo è “Caçador de Lontra” degli Irmaos Panarotto, con la partecipazione, ancora, di Marcelo Birck. In verità, i fratelli Panarotto sono di Chapecò, città dello stato di Santa Catarina.
“Eletrolas (Marcelo Birck) / “Caçador de Lontra (Irmãos Panarotto)

Da anni vivi a Brasilia, luogo abbastanza strano e straniero. Come si vive di musica nella capitale federale’ Quanto è lontana la Brasilia che cantavano i Plebe Rude negli anni 80?
La Brasilia degli anni 90 mi sembrava molto più ricca e interessante che la Brasilia incensata degli anni 80, o quella di oggi. Ne è testimonianza il film “Generazione Baré-Cola” che mostra come, nella decade dei 90, c’erano più di 400 gruppi in attività, un mare di formazioni creative, divertite e importanti, come i Raimundos. Il film uscirà a gennaio 2014 e certamente darà luce su un periodo molto più luminoso musicalmente, gli anni 90, che la scura e ombrosa Brasilia degli anni 80, che diede alla città il nome di capitale del rock. Oggi ci sono molti buoni gruppi, io menzionerei i Rios Voadores, il compositore Eron Falbo, Joe Silhueta, fra gli altri. Ora ascoltiamo però due novità: i Suite Super Luxo, un gruppo poco conosciuto in città, ma che propone un suono molto differente dalla maggior parte delle bande in attività: rock di chitarre. Il nome del brano è “Nada que nao vire som”  da “Entre a piscina e o trampolim”, appena uscito.
L’altra musica è l’“hard-roça” (campo pesante, NdT) dei Judas, formazione capeggiata dal paroliere Adalberto Rabelo. Nome del pezzo è “Cobra Criada” , appena uscita dal forno e che debutta, di prima mano, qui su Lusofonie. Con una radice ritmica tipica del Nord del Paese, il carimbò, mette in evidenza due caratteristiche della banda: la poesia densa, che contrasta con le matrici ritmiche brasiliane.
“Nada que Não Vire Som” (Suite Super Luxo) / “Cobra Criada” (Judas)

Tu sei coinvolto anche in un’esperienza molto singolare, quella dei Satanique Samba Trio: chi sono, e che significano per la città e per il Brasile?
 Secondo la loro stessa definizione, sono “punta di lancia nel movimento di contestazione della Musica Popular Brasileira. Potrebbe suonare pretenzioso, ma secondo me, si tratta della banda più iconoclasta di Brasilia, e non fanno rock. Potrebbero essere definiti una formazione zappiana che suona samba.

“Nas paredes da pedra encantada”è il titolo del film che hai realizzato con Leonardo bonfim su uno dei dischi più importanti della storia musicale del Brasile, il mitico “Paebiru” di Lula Cortes e Zé Ramalho, del 1975. Perché hai scelto di farlo?
 Ci sono diversi motivi per parlare di Paebiru: è il disco più caro del Brasile, la sua ultima quotazione sta fra i 4 e i 5mila dollari, il doppio di “Louco por voce”, il primo di Roberto Carlos. Più conosciuto e apprezzato all’estero che in Brasile, più che una rarità, Paebiru è fondatore di una psichedelica genuinamente brasiliana, con elementi di cultura indigena. E ancora: anticipa di 20 anni il manguebit. La sua storia ha tutta una mistica: delle uniche 1300 copie della tiratura originale, 1000 andarono perse in un allagamento a Recife. Non ho mai visto una storia tanto fantastica come quella che circonda questo album. Ci sono entrato in contatto facendo un reportage per rolling Stone. Il documentario, Nas paredes da pedra encantada, è stato proiettato in varie città brasiliane e uscirà in dvd all’inizio del 2014 per l’etichetta Monstro Discos, sottotitolato e con contenuti speciali addizionali.

Come sono state le riprese del film, e qual è la scena psichedelica nel Nordeste oggi?
 E’ stato difficile, soprattutto perché lo ho finanziato interamente di tasca mia. Ho venduto tutto quello che avevo per farlo, ma non c’è niente che eguagli il piacere di vedere realizzate alcune cose, soprattutto un film indipendente. Il trailer del film è visibile sul web. La scena psichedelica pernambucana oggi continua forte e sicura. Jean Nicholas, DMingus, Juvenil Silva, Graxa e compagnia oggi guadagnano più visibilità in festival, blog e riviste culturali che prima, quando erano completamente ignorati. C’è stata anche una maturazione dei lavori, oggi meno legati all’estetica “udigrudi” degli anni 70. L’influenza permane, ma non come reverenza setrile e in maniera destrutturata insieme a sonorità diverse. Si può dire che è una scena con un volto proprio, che definire “psichedelica” sarebbe limitante, poiché la psichedelica è solo uno dei molti ingredienti della pozione.

Oltre alla tua attività di giornalista per Rolling Stone, hai altri progetti, blog, passioni…ce ne parli un po’?
Sto lasciando Brasilia per tornare a Porto Alegre, all’inizio del 2014, per iniziare la biografia – autorizzata – di un grande mito della musica di Porto Alegre, Julio Reny. Sarà una biografia sullo stile di Life di Keith Richards. O meglio, sarò una specie di “medium” di Reny, che mi racconterà  la sua vita: pionierismo, avventure e disavventure nel rock di rio Grande do Sul, ma, diciamo, contemporaneo. Con il disco “Ultimo Verao”, registrato nel 1983, su cassetta, Julio ha inaugurato l’underground di Porto Alegre. Sembra un po’ un cliché, ma potrei dire che lui è una specie di Lou Reed portoalegrense. Dopo questo primo disco, di sapore folk dylanesco, Julio Reny ha attraversato varie fasi: reggae, new wave, postpunk, fino al country, con il gruppo Cowboys Espirituais, negli anni 90, la cui hit “Jovem Cowboy” è riuscita a coniugare egregiamente l’hip-hop con il country. Di Julio Reny ascolteremo “Amor e Morte”, che sarà il titolo della biografia, una canzone che è un vero inno, ancora oggi, a Porto Alegre, e poi Maomè, del suo periodo post-punk, incisa nel 1986.
“Amor & Morte (Júlio Reny) / “Maomé” (Júlio Reny) / “Jovem Cowboy” (Cowboys Espirituais)

Ci parlavi anche di un altro artista gaucho, Zé do Belo…
Il nuovo e “in lavorazione” album del cantante e compositore gaucho Zè do Belo, attualmente residente a Brasilia, è la migliore scoperta degli ultimi tempi, un ragazzo giovane, per quanto dice sulla “riabilitazione” dei gioielli perduti della musica brasiliana dei primi decenni del 20° secolo. Nel suo prossimo disco, che si chiamaerà “A moda chegando eu vou ver como é” Zè do Belo riabilita non solo i gioiell,i ma anche leggendari e dimenticati compositori brasiliani, fra i quali geni della stirpe di  Manezinho, Almirante, Getúlio Marinho, João da Baiana, fra i tanti.
Noi ascoltiamo la reincisione di “Esquecere e Perdoar”, una composizione di Canuto in collaborazione con Noel Rosa, incisa all’inizio degli anni 30. Canuto era un musicista del morro, di umile origine, talentuoso e sensibile, frequentatore del bar Cem Reis di Vila Isabel. Partecipò a diverse incisioni della sua epoca, come cantante, chitarrista e percussionista. Come Noel Rosa, morì presto, ancora negli anni 30.
“Esquecer e Perdoar” (Zé do Belo)

Salutandoci, ci vuoi ancora dire qualcosa a proposito dei progetti che hai in forno?
 Questo è un progetto che ho in mente dal 2008, un autentico progetto di vita: cominciare una biografia sul mito Nelson Gonçalves, anche lui gaucho, senza dubbio il maggiore e più mitologico cantore che il Brasile abbia mai avuto. Per questo, spero nella caduta della cosiddetta “legge delle biografie”, che proibisce, oggi in Brasile, la pubblicazione di biografie non autorizzate. Deprecabile per la cultura del Paese, e appoggiata da personaggi che negli anni 60 e 70 rivendicavano la libertà di espressione, il “proibido proibir”, come Caetano Veloso, Gilberto Gil, Chico Buarque, Roberto Carlos.. La statura di Nelson Gonçalves è sorprendente: 70 milioni di dischi venduti, alla spettacolare media di un milione all’anno. Secondo i calcoli dello stesso cantante, sono più di mille registri fonografici, composti da 183 dischi a 78 giri, 100 compactos (i 7 pollici), 200 audiocassette e 127 lp. Per lui, un grande classico, scritto per Herivelto Martins, il “tangaço” Vermelho 27
“Vermelho 27” (Nelson Gonçalves)

14 dicembre 2013

mercoledì 20 aprile 2016

Silverio Pessoa e la teoria del caos

Cantante, scrittore, pedagogo, l'artista brasiliano è emerso intorno alla metà degli anni ’90 con il suo manifesto musicale audace e rivoluzionario



Musicista, compositore, cantante, scrittore, pedagogo, Silverio Pessoa viene alla ribalta con la grande onda del manguebit, che dal profondo Nordeste del Brasile viaggerà, a metà degli anni 90, fino alla terra dei gringos. Con un manifesto audace e visionario, Caranguejos com cérebro (granchi con cervello), all’inizio degli anni Novanta mangueboys e manguegirls si propongono di scioccare Recife, la capitale del Pernambuco, «prima che muoia di infarto». Fra le cose che amano, la teoria del caos, i conflitti etnici e Bezerra da Silva, sambista del morro di fama malandrina. L’immagine della loro rivoluzione, un’antenna parabolica piantata nel fango che fa crescere i mango. Lo shock, per la musica brasiliana tutta, impantanata nella deriva commerciale dell’axé baiano, sarà potente, probabilmente il movimento culturale più interessante di questo passaggio di secolo. In questo panorama, Silverio, nato a Carpina, Zona da Mata, è forse quello che più di tutti ha tenuto forte il legame con le tradizioni, facendo dello scambio interculturale e dell’ibridazione l’asse portante della sua estetica, che si tratti di proporre l’introduzione dello studio del forrò come materia curriculare nelle scuole pubbliche, o della collaborazione con i gruppi occitani francesi ma anche italiani, o del più recente studio delle musiche dei preti cattolici o evangelici, che in terra Brasilis riempiono gli stadi, a passaggio di secolo compiuto. Nel suo carniere, 8 dischi da solista, l’ultimo, Cabeça feita – Silverio Pessoa canta Jackson do Pandeiro, uscito da qualche settimana, è il secondo che Pessoa dedica al personaggio più eclettico e irriverente della musica nordestina, che negli anni 60 conquistò orecchie, piedi e cuori del Brasile intero con la musica dei cafoni. Noi l’abbiamo incontrato di passaggio, un passaggio italiano che includeva la visita alla Sindone, e deplorevolmente nessun concerto.
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«Io ho cominciato – racconta l’artista – a fare musica lavorando la tradizione, suonando nei circuiti di forrò, la musica del Nordeste, per poi allontanarmene un po’ alla volta. Dagli anni ’90, in Brasile, si è creato un movimento di rilettura e riconfigurazione della modernità e della contemporaneità, del quale faccio parte, con Chico Science, Naçao Zumbi, Lenine, Alceu Valença. Cabeça feita è un ritorno alla musica tradizionale, un tentativo di risignificazione dell’universo creativo di Jackson do Pandeiro, non una rilettura. Ho messo 4 musicisti in studio e li ho registrati dal vivo, con microfoni a valvole degli anni ’60, incidendo su quattro canali. Un disco senza chitarra elettrica, batteria, tastiere, ci sono solo viola de dez (chitarra a dieci corde, del sertao pernambucano, ndr), accordeon, percussioni, zabumba (tamburo basso), e basso elettrico registrato acustico. Il forrò, dalle origini negli anni ’20, non usava il basso perché troppo caro per una musica di poveri, si suonava con un piccolo accordeon a otto bassi. C’è una linea di pensiero radicale secondo cui nel forrò non c’è niente di elettrico, ma Jackson do Pandeiro ci ha messo tutto: chitarre, tastiere, fiati, è stato come Frank Zappa, un grande innovatore. È una musica molto complicata da suonare, configurativa: la zabumba esegue una figura, lo stesso la viola, e l’accordeon. Ha la stessa difficoltà dell’improvvisazione jazzistica: non c’è improvvisazione armonica, ma configurazione, non è da tutti. La generazione degli anni 90 ha riscoperto, riletto, reinterpretato, attualizzato le musiche di tradizione, riportandole al centro dell’ascolto. In questo disco ho voluto riavvicinarmi all’originale: una nuova generazione ascolterà questa musica come suonava, e la troverà moderna, non una cosa nostalgica. Moderna, come realmente è.

Qual è la tradizione alla quale fai riferimento? 
Io sono della Zona da Mata Norte del Pernambuco, un’area adiacente a quella costiera, differente dal sertao (la zona semidesertica interna), e dall’agreste (la zona di transizione fra l’area costiera e il sertao). Un territorio umido, ricco di foresta atlantica, che i portoghesi scoprirono adattissimo per coltivare la canna da zucchero portata dall’India. Con l’espulsione degli europei – gli olandesi nel 17° secolo, poi i portoghesi cacciati dalle insurrezioni dei nativi – dal litorale, i molti che restarono si spinsero all’interno, stabilendosi nella Zona da Mata, sposando donne indie o africane e coltivando lo zucchero. Fu un’epoca molto feconda sotto il profilo economico per tutto il Nordeste. I portoghesi diedero in concessione molte terre ai signori, lo sfruttamento del lavoro era fortissimo, un processo economico massacrante, ma intorno a quest’area si formò quella che io chiamo la cultura della civilizzazione della canna da zucchero: una musica specifica, come la culinaria, la maniera di vestire e il modo di parlare. Una cultura che esiste in forma residuale ancora oggi, malgrado la forte urbanizzazione: ciranda, cavalo marinho, maracatu, bumba-meu-boi e forrò ci sono ancora.

Il Nordeste è terra di grandi tradizioni spirituali e religiose e di predicatori messianici
Nel 1600 arrivarono le missioni gesuite, ma già nel 1630 con l’arrivo dei protestanti olandesi furono bruciate molte chiese e uccisi molti cattolici. I gesuiti resistettero, e l’eredità cattolica della Zona da Mata risale alle missioni che arrivarono per catechizzare indios e africani. Un cattolicesimo di tradizione missionaria, popolare, fatto di novene, processioni, meno ornamentale, meno istituzionale, con le novene recitate in casa, guidate dagli anziani, Radio Maria accesa. Le fogueiras (i riti del candomblè che accendono fuochi per celebrare gli orixas, diffusissimi in tutto il Nordeste ), i brinquedos (sono definiti brinquedo tutti i riti e le rappresentazioni di sincretismo religioso), hanno un’origine portoghese. Ognuna ha una musica e un linguaggio particolare.

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Ci spieghi cos’è un maracatu?
Il maracatu è di origine africana, ce ne sono tre tipi, rappresentano l’incoronazione di un re e di una regina di una Naçao (fin dai primi tempi della colonizzazione portoghese e dell’arrivo degli schiavi dall’Africa, i cronisti presero a chiamare gli infedeli “naçao”, denominazione che finì per essere acquisita dagli africani per definire i propri gruppi di appartenenza. Le naçoes oggi esistenti discendono da organizzazioni di questo tipo). Il maracatu di baque virado è di ambientazione urbana, raro nella Zona da Mata, dove è più diffuso il maracatu di baque solto, che si differenzia dal virado nella dinamica, nella battuta, nel ritmo, per questo si chiama «solto», sciolto, libero: è più diretto, più schietto. Il terzo è il cavalo-marinho, che è una vera rappresentazione teatrale, con personaggi come il Mestre Ambrosio, le Calunga, le dame di corte, la regina, il re, i pagliacci… inizia di mattina, e va avanti tutto il giorno, 14-15 ore.

Fai spesso riferimento a Chico Science, al movimento manguebit: 20 anni dopo esiste ancora quella scena?
Sì, si è estesa, ampliata. All’inizio è stato un movimento etico più che di protesta, in Brasile c’era, e c’è ancora, molta discriminazione verso il Nordeste. Il manguebit , diffondendosi in tutto il Paese, ha prodotto una fortissima affermazione di identità e di autostima, e una grande trasformazione economica nel campo della musica. Si è sviluppata una catena produttiva, la professionalizzazione dei tecnici, degli studi di registrazione, degli spettacoli. Oggi ci sono le condizioni perché emerga, come succede, un gruppo nuovo a settimana. Io appartengo alla seconda generazione del mangue, e ho perduto la paura di diventare professionista grazie a Chico Science, che ha risvegliato in noi l’orgoglio di essere nordestini, di fare le cose, a partire dalle nostre tradizioni. Lui non era ortodosso, cercava il dialogo con la musica di Fela Kuti, col rock, con Afrika Bambaataa… Non ci sono gruppi di musica mangue, all’epoca c’era un sacco di musica, ma il mangue lo suonavano solo Chico Science e Mundo Livre S/A. Era una questione di autostima, di mercato, di credere nella musica del Nordeste. Allo stesso modo ha funzionato per cinema, moda, letteratura, gastronomia, che fino ad allora non trovavano un loro spazio. Per l’intreccio di linguaggi e forme espressive diversi, si dice che è stata una movimentazione, più che un movimento. Molti cineasti cominciarono a lavorare secondo quest’estetica, con storie di eroi come Lampiao, il re del cangaço, o personaggi come Luiz Gonzaga. Penso, ad esempio, a Paulo Caldas e Lirio Ferreira.

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La collaborazione con i gruppi di musica occitana 
La prima volta che andai in Francia per suonare, avevo appena ascoltato un disco di Lenine, dove due improvvisatori suonavano coco, in francese. Fui molto sorpreso: il coco è una musica pernambucana, c’è dentro il canto degli schiavi. Erano i Fabulous Trobadors. Li cercai, attraverso loro incontrai altri gruppi, e scoprii il movimento occitanista. Le somiglianze con il Nordeste sono tantissime, a partire dalla religiosità: nella Francia tanto laica, il Sud è pieno di pellegrinaggi, sorgenti miracolose, c’è stata l’eresia catara. Poi, una folta vegetazione, molta agricoltura, una ricca culinaria, e, naturalmente, la musica, in particolare l’utilizzo dell’accordeon, uno strumento tipico francese e centrale nel forrò. Da questo incontro è nato un progetto che ha prodotto due dischi, Collectiu, con 12 gruppi occitani, e Forrocitania, che è il risultato della mia residenza con il gruppo La Talvera. Nessuno dei gruppi con cui ho collaborato fa musica tradizionale fissa, statica, proprio come in Pernambuco, vanno oltre la riproposizione della tradizione.

Intervista per Il Manifesto del 6 luglio 2015

Naçao Zumbi – Un maracatu che pesa una tonnellata

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Venti anni fa esplose il manguebeat e i Naçao Zumbi, il maggior avvenimento della musica brasiliana degli ultimi anni: come è nato?
LM- E’ iniziato perché Recife, la nostra città, non aveva molte possibilità di intrattenimento, non c’era la possibilità per le persone di vivere di cultura, di fare niente. Il movimento è partito da questo, dalla necessità di creare un ambiente artistico in cui si potesse suonare, fare concerti, e al quale potessero partecipare altri artisti. Questo è il motivo per cui il movimento ha inglobato cinema, arti plastiche, musica, moda: è stato un fermento che ha attraversato tutta la città.

Il manguebeat, momento di grande creatività artistica, musicale e intellettuale, continua oggi nel lavoro di quanti vi parteciparono, come Siba, Silverio Pessoa, Mundo Livre S/A, Lirinha: qual è oggi la scena di Recife?
D- Continua fino a oggi: abbiamo un Carnevale a Recife che è aperto a tutti, e nel quale la maggior parte delle formazioni suona per un pubblico enorme, che viene da tutto il Brasile e da fuori, e poi c’è un grande scambio di collaborazioni fra i musicisti, che reciprocamente partecipano ai lavori degli altri, così la scena resta viva.
Oggi abbiamo un problema molto grande, che è la mancanza di spazi chiusi per suonare, l’assenza di interesse delle radio, che non ci hanno mai suonato, né all’epoca della nascita del manguebeat né oggi: non passano i nostri pezzi alla radio, non andiamo in televisione, non abbiamo nessun appoggio dai media.
LM- C’è un proverbio che dice “il santo di casa non fa miracoli”, ed è quello che succede a Recife. Non abbiamo radio indipendenti, è una questione politica, non artistica.

La Naçao di oggi, dopo tanti anni: cosa rimane e cosa è cambiato?
D- E’ difficile dirlo, il gruppo continua a mettere insieme sempre nuove influenze, nuovi elementi, mentre quelli che c’erano, permangono. Modifichiamo il nostro modo di suonare man mano che, vivendo, ascoltiamo cose nuove, sperimentiamo. Penso che tutto trovi posto nel nostro lavoro: tutto resta e tutto cresce.
P- Noi pensiamo al nostro lavoro come un insieme artistico di idee differenti, nel quale ognuno porta le sue informazioni, nel momento in cui suoniamo. E’ sempre stato così, fin dall’inizio.

Temi politici e sociali furono centrali per l’inizio del movimento: pensate che la musica svolga una funzione politica?
LM- Sì, lo penso. Il Pernambuco è uno Stato che, storicamente, ha sempre dovuto lottare molto, per questioni politiche, di territorio. Quando il Brasile diventò una repubblica, il Pernambuco dovette lottare duro, a causa della coltivazione della canna da zucchero, per la propria cultura. Allo stesso modo, storicamente, questo si trasmette agli artisti e attraverso gli artisti. E’ una musica che, malgrado sia molto festiva per via del carnevale, ha un carico storico molto importante, e a volte diventa una musica un po’ pamphletaria, perché lo stato del Pernambuco è stato sempre molto attivo politicamente.

Mistura di maracatu, ciranda, coco, rock, hip hop, tutti elementi presenti nella vostra musica: quali sono le vostre fonti di ispirazioni?
D- Tutte quelle che hai detto, e ancora altre. Sono molte cose, è difficile elencarle: Jacinto Silva, Luiz Gonzaga, Jackson do Pandeiro… tutte queste cose che si vedono, più altre, europee, tedesche, anche italiane, Mina, Adriano Celentano..

La stagione della psichedelia degli anni 70, nomi come Lula Cortes, Ave Sangria, hanno un peso, sono importanti nella formazione della musica di Recife?
LM- Sì, ci sono oggi gruppi che, sebbene non siano famosi, portano la verve della psichedelia pernambucana degli anni 70. Lula Cortes è stato l’esponente più visibile di quel gruppo di artisti, gli Ave Sangria quando si sciolsero diventarono il gruppo di Alceu Valença, e da allora lui cominciò a produrre quello stesso suono, proprio con i componenti degli Ave Sangria. Paulo Rafael, che era il chitarrista, ha avuto un’influenza molto grande su tutti gli artisti della generazione degli anni 70 e 80. Noi abbiamo ascoltato tanto Alceu Valença, ne siamo stati influenzati, quella mistura di chitarra con forrò, baiao.. Robertinho de Recife è il massimo per me..

Los Sebosos Postizos, Sonantes, 3 na Massa, Almaz con Seu Jorge e Maquinado di Lucio Maia: come lavorate con tutti questi progetti paralleli?
La Naçao è un gruppo molto grande, con 8 persone sul palco, ognuna con gusti differenti. Suonare insieme è il nostro modo di lasciare l’ambiente aperto, così che ognuno possa portare i propri gusti musicali, le proprie influenze. I progetti paralleli ci servono per sperimentare questi altri nostri aspetti, quelli che non trovano posto nella Naçao, malgrado sia molto aperta. Alcune di queste formazioni (Almaz, Los Sebosos postizos) sono piccoli gruppi della più larga formazione. Sono, ad un tempo, lavori differenti ma che conservano un’unità forte, qualcosa che li rende riconoscibili. Dentro la Naçao, ascoltiamo tantissima musica, ed è questo che permette di rendere riconducibili a un’unica matrice quello che facciamo, insieme alla capacità di creare un suono diverso da quello abituale, come adesso con Marisa Monte.

Il Memorial Chico Science a Recife
Il Memorial Chico Science a Recife

A Recife c’è il Memorial Chico Science: cos’è, e come funziona?
LM – Il Comune ha creato una sorta di mini-museo, che mostra varie notizie su Chico, una ricostruzione storica di quello che faceva come musicista, con molte informazioni, video, la chitarra che suonavamo in quel periodo. E’ come una finestra aperta per mostrare, didatticamente, quello che è successo, quello che Chico rappresenta per Recife, per la musica pernambucana e brasiliana.  Uno spazio aperto in una maniera molto rispettosa, bella.
D- Ce ne dovrebbero essere altre, di iniziative simili, ad esempio per Capiba, e anche per persone che non sono morte, come Dona Lia de Itamaracà, senza aspettare che muoiano per essere riconosciuti. Lula Cortes, artista importantissimo, non credo che lo avrà. Noi siamo stati fortunati, avevamo una casa discografica che ci sosteneva, siamo stati in tournée in Europa, negli Stati Uniti, dove venivano distribuiti i nostri dischi, è stato molto differente dagli artisti che sono venuti prima, che, pur avendo lavorato moltissimo, non hanno avuto la stessa visibilità.

Qual è il vostro rapporto col Brasile, col Pernambuco, dove siete una formazione molto “identitaria”, e col resto del mondo?
LM- A Recife facciamo concerti per 80-90mila persone, e questo è bellissimo, ma siamo una formazione che non ha mai avuto il 100% di appoggio del territorio, in relazione ai media, le radio, la televisione.
P- Il pubblico ci rispetta, ci segue, ma è possibile grazie a internet, non grazie ai media, alla Municipalità, perché non c’è un luogo di comunicazione culturale.
LM- Abbiamo aderito durante il Carnevale alla protesta promossa da Alessandra Leao, di non suonare in luoghi pubblici, per un problema di pagamenti che per gli artisti locali arrivano sempre con grande ritardo, anche 6 mesi dopo, e a fatica, mentre le risorse vengono utilizzate per chi viene da fuori, facendo leva sull’irrinunciabilità da parte nostra di suonare durante il Carnevale. E’ una grande mancanza di rispetto, Santo de casa non faz milagres

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Naçao Zumbi al Carnevale di Recife

I cambiamenti politici, le presidenze Lula e Roussef, che segno hanno portato nel Nordest?
E’ cambiato tutto, è migliorata la gestione culturale, l’economia, tutto. Il NordEst rimane sempre un po’ ai margini, le cose cambiano, migliorano, c’è crescita, ma il gap fra il Nordest e il resto del paese rimane inalterato, tutto cresce in proporzione, ma non si colmano le distanze, i ritardi. Ci vogliono molti anni di lavoro politico dedicati a questa regione. Lula lo ha capito sin dall’inizio della sua presidenza, che bisognava dedicarsi particolarmente a questa regione, lui stesso è nordestino, dunque ha investito molto, ci sono stati molti miglioramenti. C’è molto da fare, ma è stato già fatto parecchio.

A Recife c’è lo stesso problema che affligge Bahia, il crack, la violenza..?
Il crack c’è dappertutto, adesso si sta espandendo nell’interno del Paese, non solo più nelle città. E’ un’epidemia, ed è soprattutto un problema di salute. Prima che di sicurezza e di tutto il resto, è un’enorme problema di salute pubblica.

E la Chiesa evangelica?
Continua sempre a crescere, è un fenomeno molto preoccupante, pericoloso, perché ora è compromessa con la politica, con i media, possiede televisioni, molte radio. Ha molto potere, non è proprio per niente una cosa buona.

Si può dire che esiste un asse Sao Paulo- Recife ora in campo musicale, che si estende a quello che sta succedendo in Parà, a Belem, con Gaby Amarantos, Felipe Cordeiro, Pio Lobato?
Noi conoscevamo la musica del Parà da molto prima che il fenomeno diventasse riconosciuto a livello nazionale, c’è una relazione molto forte fra il Pernambuco e il Parà. Musicisti come Pinduca, di carimbò, sono sempre stati molto popolari a Recife, come la guitarrada, la musica definita “brega. Attualmente Sao Paulo è una città che promuove gli incontri, persone di ogni parte del Brasile vi si incontrano, e noi stessi ci stiamo vivendo per questo. Felipe Cordeiro, i Cidadao Instigado, Gaby Amarantos vivono lì, Siba… tutti vivono in Sampa, per rendere possibile l’incontro e l’interazione musicale. A Recife torniamo spesso, abbiamo tutti figli, una famiglia là, Dengue è tornato a vivere a Recife. Sono città molto differenti, per qualità di vita, possibilità per i bambini, stimoli culturali, scuola, possibilità di lavoro.

Come funziona il processo compositivo della Naçao?
E’ un processo collettivo, lo è stato sempre, fin dall’inizio. E’ molto più facile lavorare così.
Bisogna essere molto aperti, disponibili, per lavorare così. E’ molto raro in Europa…
Non solo in Europa, credo sia così in tutto il mondo. Ma allo stesso tempo, è un fenomeno che succede raramente: un gruppo che compone insieme, e riesce bene, è una cosa che succede solo di tanto in tanto, e che dura poi per tanto tempo.. Generalmente parte tutto da una sola testa, che pensa a tutto, mentre gli altri eseguono solamente.

Nel progetto di Marisa Monte, è per me una pena che non ci sia un po’ di quel suono tanto particolare e “diagonale” che avete anche nei progetti individuali..
Quando lavori con Marisa, è tutto al suo servizio. C’è un dialogo apertissimo con il gruppo, con tutti, quando si fanno gli arrangiamenti. Siamo riusciti a portare i nostri timbri, ma sempre al servizio della musica che lei vuole fare.

L’ultima domanda è sui vostri progetti futuri..
L’ottavo disco è già registrato, l’abbiamo inciso prima di partire in tournée. Nel frattempo i musicisti che non sono con noi stanno curando i loro progetti individuali, e appena torniamo in Brasile cominciamo a lavorare sulla registrazione. Cominciamo ad ascoltare, a editare, per uscire all’inizio del prossimo anno, il 2014.

Poi verrete a suonare in Europa?
Dopo la tua intervista sicuramente, verremo a suonare in Italia.

Intervista per Il Manifesto del 15 luglio 2013


Caranguejos com cérebro - Il manifesto del manguebeat

Pipoca moderna, il risveglio di Bahia

Con l’infiammarsi della protesta sociale nelle piazze brasiliane, anche i suoni di Salvador tornano a sollecitare le coscienze come ai tempi della dittatura militare. L’esempio del festival ideato e diretto dalla cantante Marcia Castro
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Così la musica indipendente della “Roma Negra” ritrova l’impegno
A giugno dell’anno scorso quando dal Brasile arrivarono le immagini delle proteste contro l’aumento dei prezzi dei mezzi pubblici, alcuni organi di stampa internazionali indicarono negli strati più poveri della società brasiliana i responsabili dei
disordini. In realtà, dopo analisi più attente si è scoperto che quelli che urlavano davanti alle porte dei palazzi del potere, non erano gli abitanti delle favelas. Era il ceto medio, stanco di un governo che sembra aver perso per strada la fiducia e l’appoggio dell’elettorato di cui godeva Lula. Le contestazioni cominciate con l’inaugurazione della Confederation Cup a quasi un anno di distanza si sono moltiplicate a macchia di olio. Complici gli enormi sprechi che hanno caratterizzato l’organizzazione dei Mondiali di calcio e altri scandali che hanno visto implicate alte personalità del Partito dei Lavoratori (il partito che guida il governo), complici i forti squilibri e la violenza nelle strade che è arrivata a livelli sconcertanti, la paura di una recessione e la mancanza di fiducia nelle istituzioni diventano sempre più evidenti.
In questo clima di protesta, Salvador capitale dello stato di Bahia sta riscoprendo un impegno politico che non si avvertiva dagli anni della dittatura. Un ruolo importante lo stanno svolgendo i vari blog, che fanno da tam-tam per l’organizzazione delle
contestazioni, a favore delle quali si sono apertamente schierati molti artisti. Ma anche la scena della musica indipendente è attivissima: la presa di coscienza collettiva ha creato il giusto contesto per uscire allo scoperto.

POP CORN IMPAZZITI
Uno dei grandi appuntamenti che ha caratterizzato questa prima parte dell’anno è stata «Pipoca Moderna». Festival arrivato alla sua terza edizione, e organizzato da Marcia Castro, una delle protagoniste della musica baiana di questi ultimi anni. Il nome della manifestazione prende spunto dalla folla, che imitando il pop corn (pipoca) danza fuori dalle corde che delimitano i blocchi. In alcuni casi la scelta può essere ideologica, ma nella maggioranza dei casi è a causa di questioni economiche: il costo degli abadà, le magliette che consentono l’accesso ai blocchi e ai trio elettrici è spesso inaccessibile per gran parte dei soteropolitani, (nome con il quale vengono chiamati gli abitanti di Salvador, dal nome reco della città, Soteropolis). I pipoqueiros, che come pop corn impazziti agitano le code dei blocchi, rappresentano il vero carnevale di
strada baiano, o ciò che rimane delle sue origini popolari.
Ed è proprio da qui che parte l’idea di Marcia Castro; riportare il carnevale di Salvador a uno spirito più autentico, sostenendo proposte che non gravitano nel solito circuito locale. In sole tre edizioni, la cantante ha messo in piedi un festival di primordine nel quale a turno transitano i nomi migliori del panorama musicale brasiliano. L’appuntamento quest’anno si è svolto presso il Clube Fantoches da Euterpe, uno dei club di ballo più antichi di Salvador. Suddiviso in tre serate, il festival ha aperto, quasi in concomitanza con la festa consacrata alla divinità afrobrasiliana che protegge Bahia, Yemanjà, alla quale è stato dedicato l’intero show. Marcia Castro insieme a Mariana Aydar, Sandra de Sa e Mariene de Castro, hanno duettato tra marchinhas di carnevale, samba tradizionali in onore della dea marina, e canzoni dei rispettivi songbook.
Nel secondo appuntamento, il clou dell’intero festival, si sono alternati sul palco Otto, Iara Rennò, Caetano Veloso e Ney Matogrosso. L’inedito duetto tra questi ultimi due rimane uno dei momenti più emozionanti nel panorama musicale di una città, dove purtroppo è sempre stato difficile proporre cose non in linea con le leggi dell’industria del divertimento.
La serata di chiusura, ribattezzata A Noite das Mulheres Super Poderosas, «la notte delle superdonne», ha riunito la rockeira Karina Buhr, la Beyoncè del Parà Gaby Amarantos e l’ex voce dei Novos Baianos, Baby do Brasil, in uno show pre-carnevalesco d’altri tempi. Sorpresa dell’ultimo minuto, è stata la partecipazione della regina della musica axè, Daniela Mercury, la cui presenza ha ribadito ancora una volta il concetto che la musica brasiliana non è snob, né alta, né bassa, e spesso non ama marcare divisioni tra i generi con la squadra e il righello. In questa visione orizzontale della musica i brasiliani sono sempre stati coerenti. In nessuna altra parte del mondo i crossover o le misture sono veramente tali come in Brasile. Lo scrittore e antropologo Darcy Ribeiro ci aveva visto lungo, e prima di lui Gilberto Freyre, che sulla miscela tra razze e culture in Brasile ha scritto libri su libri.

STUDENTI MODELLO
Progetti come «Pipoca Moderna» sono la prova che divertirsi a Salvador non vuol dire per forza ignorare la realtà. La gran parte delle persone che frequentano queste serate sono quegli studenti che si interrogano sul futuro del paese. Stanchi di sentirsi dire che il Brasile è il paese ricco di cui tutti parlano, fanno notare come in realtà la ricchezza a cui si riferiscono gli economisti sia vera solo nei numeri, e come questa venga mal distribuita.
Marcia Castro, che vive tra Sao Paulo e Salvador, durante un’intervista rilasciata qualche mese prima dell’inizio delle proteste, già criticava lo stato in cui si trovava in particolare l’istruzione pubblica brasiliana: «È la priorità per un popolo che non ha ancora pienamente coscienza delle proprie possibilità e soprattutto dei propri diritti»; gli stessi temi delle proteste di piazza.
Grazie a progetti come «Invasao Baiana», festival che quest’anno si è svolto a Brasilia, e alla nascita di piccole e coraggiose etichette indipendenti come la Garimpo Musica, Salvador riallaccia un discorso che si era interrotto agli inizi degli anni ‘80, quando per ragioni puramente economiche l’industria musicale baiana scelse di investire tutto sulla nuova musica del carnevale: l’axè. Attualmente la scena indipendente  soteropolitana, grazie anche soprattutto alle possibilità che offre la rete e a una intensa attività live, è riuscita a costruirsi un circuito proprio. Ogni fine settimana si può assistere a concerti di musicisti che vengono da tutto il paese per collaborare con bande come i Baiana System, che mischiano il dub alla chitarra baiana (lo strumento-simbolo del carnevale di Salvador). Anche le le esibizioni dell’Orkestra Rumpilezz del maestro Letieres Leite, che
utilizza ritmiche del candomblè, il culto afrobaiano per eccellenza, e una sezione fiati in stile big band, sono state molto apprezzate. Il country surf dei Retrofoguetes, e il jazz-cabaret di Manuela Rodrigues, condividono gli stessi spazi con il samba di Mariene de Castro, nuova stella del samba de raiz, il samba «delle radici». Il pop sperimentale di Lucas Santtana, chitarrista che l’etichetta inglese Mais um discos distribuisce qui in Europa. E l’hip hop conscious del trio degli Opanijè danno l’idea di una città connessa con il mondo.
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A Bahia (molto più che da altre parti), i generi e gli stili musicali si sono sempre mischiati l’uno all’altro senza gerarchie o distinzioni particolari. In un certo senso questo dà alla sua musica un sapore di assoluta spontaneità, distante da qualunque intellettualismo fine a se stesso. Le citazioni colte e quelle popolari si legano le une alle altre, senza inibizioni o complessi. Per questa ragione, nel caso di Salvador è praticamente impossibile riconoscere una scena dove tutti condividano la stessa estetica musicale. Se proprio si vuole cercare un filo conduttore, potremmo trovarlo in quel gusto per il sacro mischiato al profano, che ha molto a che vedere con la cultura della città. Oppure è semplicemente l’eredità di quella antropofagia che animava il tropicalismo di Tom Zè, Gil, Caetano e compagni, che torna a farsi sentire dopo tanti anni.

TORNA LA BIENNALE
I segnali che anche la cosiddetta «Roma Negra» (nome dato a Salvador da Mae Aninha, sacerdotessa di origine Yoruba che fondò all’inizio del secolo scorso uno dei terreiros più antichi della città) stia riguadagnando il rispetto della scena culturale del paese ci sono tutti. La prossima estate, dopo ben 46 anni, Bahia si riprende la sua biennale. Non accadeva dal 1968, anno in cui la seconda edizione fu chiusa dai militari. Ora non resta che aspettare i prossimi mesi per vedere cosa succederà sul palcoscenico dei Mondiali di calcio. Con il suo stadio nuovo di zecca, orgogliosamente consegnato in anticipo rispetto ai tempi previsti, Salvador è una delle sedi più importanti. Il governo ha già promesso leggi repressive durissime, mentre parte della società si organizza per cogliere l’occasione di attirare l’attenzione sui mille dubbi che “agitano” gran parte del paese. Anche qui a Salvador la coppa, oltre che negli stadi si giocherà anche in strada.

Roberto Lycke (pubblicato su Alias il 5 aprile 2014)

Arto Lindsay, il fascino indiscreto del rumore

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È in uscita in questi giorni, Encyclopedia of Arto, doppia raccolta che riunisce tracce da studio, e un secondo live – di un musicista che ha attraversato alcune delle più importanti stagioni della musica moderna: Arto Lindsay. È a New York alla fine degli anni 70 con i DNA, insieme a Ikue Mori e Robin Lee Crutchfield, con i primi Lounge Lizards di John Lurie e con i Golden Palominos di Anton Fier, insieme a Bill Laswell e John Zorn, agli inizi degli anni 80, per approdare infine al duo Ambitious Lovers con Peter Scherer. Smessi i panni dell’amante ambizioso dà il via a una carriera solista evidentemente nutrita dalle traiettorie seguite e incrociate, ma alimentata con altrettanta evidenza dalla sua educazione sentimentale, per gran parte sperimentata in Brasile, dove è cresciuto e dove è tornato da qualche anno a vivere. E dove ha svolto la maggior parte della sua attività di produttore, cominciando dall’anno di grazia 1989, che lo vede produrre, suonare, comporre, tradurre Estrangeiro di un Caetano Veloso ancora lontano dai fasti almodovariani e dal successo planetario, chiamando a raccolta Nana Vasconcelos, Carlinhos Brown, Bill Frisell e Marc Ribot, oltre a Peter Scherer che cofirma la produzione. Eppure, la sensazione che resta di questo inquieto sessantenne, è quella di un personaggio tanto diagonale da restare sempre discosto. Quando lo incontro, è questa la prima domanda.

«Forse sono rimasto un po’ a lato perché ho fatto cose molto diverse. Generalmente, le persone ripetono sempre la stessa cosa perché sia ricordata, io ho sempre fatto le cose per il mio piacere, per il mio interesse. Chiaramente penso a una carriera, ma trovo più interessante inventarla, che seguire una formula. Può darsi che abbia un’identità più fluida di altri, e questo mi fa sentire parte di scene musicali differenti. Credo che quelli della mia generazione che hanno agito così, fossero un presagio di quanto succede oggi. Oggi è facile ascoltare, incorporare musiche di posti ed epoche differenti. Se in passato una scena era caratterizzata da un luogo, ora non lo è necessariamente, è più una comunanza di attitudini, di interessi. Persone che partecipano a una stessa scena pur non essendo dello stesso posto. Oggi le reti sociali uniscono le persone, e allo stesso tempo le dividono: chi non ne fa parte è fuori. Il web sta diventando sempre più un luogo chiuso, di gruppi chiusi. Se non sei su facebook, ad esempio, non hai accesso alle informazioni che vi circolano.

Come ci si sente a vivere «fra due mondi»?
I miei genitori erano americani e andarono a vivere in Pernambuco (Nordest del Brasile), essere fra due mondi è quello che mi è successo, non è stata una scelta e l’ho sempre trovato naturale. Nessun luogo è strano, chi cresce in posti differenti impara che nessun posto è naturale, tutto è un’invenzione dell’uomo. Se vivi in Sicilia e non ne sei mai uscito credi che vivere così sia naturale e gli altri siano strani. Ma se viaggi vedi che in ogni posto le persone hanno un modo di vivere, e che tutti questi modi sono naturali, e allo stesso tempo nessuno lo è.

Nella «Enciclopedia» ci sono solo brani della carriera solista…
L’idea era quella, non ci sono dna, partecipazioni, collaborazioni. È una falsa enciclopedia, è la parodia di un’enciclopedia. Pensare un’enciclopedia di una persona sola è già una parodia in sé.

Caratteristica della tua estetica musicale è collocare elementi estranei, inserirli in maniera che risulti «incomodante» in senso interrogativo…
Non credo che la musica debba essere «incomodante», ma non penso neanche che mi disturbi solo il rumore. Ci sono molte maniere di disturbare, una stimolante e una soporifera, ripetitiva, senza grazia, senza dinamica, senza vita. Mi interessa provare a forzare la relazione fra una cosa più ruvida e una più melodiosa, tentarne la trasformazione. La mia ambizione è fare una musica un po’ interrogativa, e credo che anche la relazione fra i due cd lo sia…

La maniera in cui suoni e quella in cui canti sono molto differenti: cosa cerchi nelle due ?
Non ho dominato una tecnica per poi andare oltre: questa è la tecnica. Ci sono molti musicisti che suonano benissimo la chitarra, e da lì partono per andare oltre. Non è quello che faccio io, io cerco di fare di quella cosa stessa una scienza, un’estetica organizzata, una tecnica. Cantando, cerco di imparare a cantare, e allo stesso tempo inserisco elementi di rumore, tecniche differenti. Imparo facendo e ascoltando, sia nel canto che nello strumento, la mia maniera è apprendere e fare. Credo che la scienza dell’ascolto sia molto importante, imparare ad ascoltare. Io ascolto molta musica, e ho imparato a sentire. Non suono nessuno strumento armonico, ma con l’esperienza, ascoltando, ho imparato molto sull’armonia. Lavorando in studio, producendo dischi, si ascolta con molta attenzione. Io non so creare armonia, ma so distinguerne gli errori.

lounge lizard

Nel corso della tua carriera hai collaborato con molti artisti…
Credo che la musica sia un’arte molto sociale, si fa musica con altre persone ed è ugualmente importante la relazione col pubblico. Credo sia naturale.

Cosa vedi oggi nella musica brasiliana?
A Rio e a Sao Paulo adesso c’è molto interesse per la musica improvvisata, e in tutto il Paese cresce l’interesse per quella strumentale, mentre alcuni artisti stanno maturando in una maniera molto stimolante. Penso a Siba, o a Juçara Marçal, la cantante dei Meta Meta, che ha appena realizzato un album solista, Encarnado, molto buono.

Una delle tue caratteristiche principali è la ricerca attraverso l’improvvisazione…
Ho sicuramente improvvisato in molte maniere, ma se ho uno stile improvvisativo, questo si è forgiato insieme ai musicisti di NY all’inizio degli anni 80. Lo stile di improvvisazione che si suonava allora a NY non mi piaceva, era privo di dinamica, molto basato sul concetto di texture, non aveva molto ritmo, né volume. Quando ho cominciato a improvvisare, ho provato a fare una cosa diversa, con dinamica e ritmo, e con silenzio.

La tua maniera di fare musica mi ricorda Nelson Cavaquinho, un sambista molto «diagonale» che è diventato un classico…
Adoro Nelson Cavaquinho, l’ho ascoltato molto. E interessante, perché fra i sambisti è quello che maggiormente assomiglia a un bluesman, per il suono, l’attitudine, i testi così negri, pesanti. Joao Gilberto, al contrario, a volte leva le parti del testo più pesanti — per esempio su Estate di Bruno Martino non canta «odio l’estate». È molto strano che faccia così, si può interpretare come una nevrosi, o semplicemente un pudore borghese.. succede anche in Sampa di Caetano Veloso, ma per una questione di armonia. Ha questa follia di togliere parti delle canzoni, ma quello che fa è una miscela fantastica, fa ciò che vuole e allo stesso tempo è molto rispettoso, persino troppo…per esempio, non cambia mai l’accento delle parole cantando, deve essere quello giusto, naturale. Sono molto legato a Joao, e credo che questa faccenda di cantare quasi come se si stesse conversando, è un grande contributo alla musica. È uno dei miei eroi. A proposito delle riletture dei samba di Nelson Cavaquinho, penso che la maggior parte dei musicisti partano non dalla maniera in cui lui faceva musica, ma dalla musica scritta, come fossero samba convenzionali. E adoro Batatinha, uno che faceva melodie bellissime e testi di una bellezza folle.

La tua musica tanto fisica e potente sta in una linea molto sottile. Come entra tutto in così poche note?
La musica è attenzione, attenzione di chi la fa e di chi la ascolta. Giacinto Scelsi usava pochissime note, e con quelle apriva un mondo intero. Adoro la sua musica, e anche il personaggio che lui ha creato, era il David Bowie della musica classica, ha inventato un mito.

«L’enciclopedia», pur se ironica, segna il momento di fare il punto sulla tua carriera?
Non so come rispondere, è interrogativa anche questa scelta. Mi hanno suggerito di fare una compilation, e io ho proposto di metterci dentro anche quello che ho fatto dal vivo, recentemente. Mi ero chiesto come rispondere a questa domanda, ma non è stato programmatico, non così tanto monografico, non è completo, è più nella tradizione dei Greatest hits del mercato pop… ti ricordi il Greatest hits dei Throbbing Gristle?

Quello dei Throbbing Gristle era un finto greatest hits, molto provocatorio. Sono ancora possibili provocazione e radicalità?
La provocazione – come quella dei Throbbing Gristle con il loro finto GH – è diventata tradizione, ma non credo si sia esaurita, è sempre possibile. La più interessante recentemente è nella moda, nel «normcore» degli hipster che, ironicamente, usano i vestiti più normali possibile. Ovvero, la prossima moda sarà nessuna moda, vestirsi come i propri genitori, con i «dad-jeans», i jeans che ha usato Obama, il cappello da baseball più basico possibile. Usare il normale come strano, un’attitudine che è stata radicale è oggi uno scherzo nella moda, su internet. La perdita di radicalità è interessante. Credo che sia sempre stato così, la storia è lunga, dobbiamo guardare oltre i nostri riferimenti, anche il romanticismo era percepito come molto radicale quando è apparso. Trovo la novità stimolante, ma non è l’aspetto principale dell’opera. Per tutte le generazioni a una certa età è importante leggere Rimbaud, ascoltare Hendrix. Non ci sono tutti gli stessi significati nelle diverse generazioni, ma ce ne sono di immutabili, che funzionano per tutti alla stessa età. Anche nella scienza, le leggi che usiamo per spiegare le cose, a volte cambiano.Le condizioni specifiche che sono state necessarie per la creazione del mondo sono in qualche modo casuali, forse esistevano altre leggi, magari molto semplici, che noi non riusciamo a vedere da qui, magari la forza di gravità era differente. Ho un figlio di 9 anni, e sono preoccupato per come sarà il mondo per lui. Credo che per loro siano necessarie delle scelte radicali meno individuali e più sociali di quanto sia successo a noi, alle generazioni che li hanno preceduti. Noi ci auspicavamo che il mondo cambiasse attraverso la somma di tanti atteggiamenti individuali, mentre loro devono agire forti cambiamenti sociali, collettivi. È talmente ovvio che è necessario.

Intervista uscita su Il Manifesto - 30 maggio 2014
Foto Emanuele Breda